Uno dei miei soliti tentativi di guardare in sintesi
Innalzarsi al di sopra degli eventi, e osservarli serenamente
(Giorgio Marincola, Montorio Romano, settembre 1942)
Siamo abituati a parlare di Giorgio Marincola, della sua storia, della nostra ricerca su di essa, delle ipotesi di partenza, di quelle di approdo. Tuttavia, prima di fare questo dobbiamo parlare di Isabella, sua sorella. Il 30 marzo 2010 Isabella intorno all’una di notte è morta nel suo letto, a quasi 85 anni, semplicemente smettendo di respirare. Qualche giorno fa il Presidente della Repubblica ci ha comunicato di voler intitolare un’aula del Liceo “Pilo Albertelli” di Roma, quello che fino al giugno 1944 si chiamava Umberto I e che era la scuola di Giorgio. E di Isabella. Isabella era nata il 16 settembre 1925 a Mogadiscio da Giuseppe Marincola e Aschirò Hassan. Come Giorgio Isabella portava sulla pelle il tratto di entrambi i genitori, come lui era un’Italiana dalla pelle nera; come lui ha vissuto questa sua peculiarità in un tempo e in un luogo che violentemente rigettava tale eventualità . L’Italia degli anni Venti e Trenta, l’Italia unanime del fascismo, l’Italia che per sé pretendeva una definizione identitaria collettiva e standardizzata, l’Italia ario-italiana delle leggi razziali che prima che su chiunque altro si abbatterono sul mondo coloniale, sui sudditi africani, isolati dai cittadini bianchi e italiani nei villaggi e nelle città del Corno d’Africa e della Libia. Sui figli delle colonie, quelli come Giorgio ed Isabella, nati da un cittadino e un’indigena. Come Giorgio, Isabella ha covato dentro di sé una indefinitezza ed una frammentazione, culturalmente imposte, della propria identità. Ma a differenza di Giorgio, Isabella non ha avuto l’antifascismo, quanto meno non un antifascismo praticato. Non ha combattuto nelle fila della Resistenza, non è stata partigiana. La nostra ipotesi di approdo, che si è articolata negli anni della ricerca, nei mesi della scrittura di Razza partigiana e negli ultimi due anni di proposizione pubblica del nostro lavoro, è che Giorgio riuscì a risolvere la sua identità, a trovare una definizione di sé attraverso la militanza resistenziale, attraverso, in sintesi, il suo essere partigiano. Isabella ha continuato a cercare questa soluzione, senza mai trovarla. L’ha cercata a Roma, dopo la morte di Giorgio, dopo il ritorno del padre dalla guerra, dopo l’allontanamento dalla casa del padre per i continui scontri con la matrigna. L’ha cercata nell’intelligencija artistico-culturale romana degli anni Cinquanta. L’ha cercata in Somalia, nella sua vera madre, nella terra natia, nella società somala che per lei aveva costituito nell’adolescenza una sorta di eden di accoglienza. Per trent’anni ha vissuto a Mogadiscio, assistendo allo sfascio di una società provata e frammentata dal colonialismo prima e dall’amministrazione fiduciaria italiana poi, dall’invasione della religione che la voleva un’infedele, una gall, bianca ed italiana, dalla dittatura militare, dalla guerra civile che nel 1991 l’ha riportata in Italia. E l’Italia non aveva ancora smesso di considerarla meticcia e somala e chissà se mai smetterà. L’ha cercata in Giorgio, che ha sentito per tutta la vita come il suo unico grande alleato ed il suo fratello traditore che nell’estate del 1944 l’ha lasciata sola. A Giorgio fece intitolare un’aula della scuola italiana di Mogadiscio, ma poi la guerra quella scuola l’ha distrutta. Pensavamo che vedere un’altra aula intitolata al fratello avrebbe potuto gratificarla. La notizia non le ha suscitato, nei giorni scorsi, l’entusiasmo che credevamo. Comunque, non la vedrà. Ma la domanda resta: perché? Abbiamo conosciuto Isabella nel 2005, all’inizio della ricerca che sta alla base di Razza partigiana, registrando via via la sua diffidenza timida ma non taciuta, il suo entusiasmo, la sua emozione, il suo orgoglio per questo fratello che attraverso noi di nuovo usciva da una prigionia (memoriale e lunga quasi cinquant’anni) per essere ancora partigiano. Abbiamo registrato il suo dolore per una ferita che forse, in questi cinque anni, le si è riaperta. Noi, nel nostro egotismo, che abbiamo voluto che Isabella fosse coinvolta, non fosse solo una fonte orale, una testimone, un’informatrice. Noi, nel nostro egotismo, con i nostri meriti e le nostre colpe. Noi, nel nostro egotismo, che orientiamo i nostri sforzi contro la retorica celebrativa che intrappola la storia, ci troviamo di fronte alla retorica della vita che finisce, alla retorica della mancanza. Noi, nel nostro egotismo vorremmo avere la possibilità di un altro momento con lei; di guardarla ancora sorridere maliziosa; di ascoltarla ancora nella sua imitazione di una voce radiofonica stile anni Cinquanta; di cogliere ancora l’espressione bambina che le scappava fuori dagli anni quando era intimorita. Vorremmo avere il tempo di chiederle perdono per aver detto centinaia di volte che Giorgio è stato una metafora della storia d’Italia del Novecento, quando lo è stata anche lei, forse anche in misura maggiore; per averle ricordato le sue ferite, per averle indotto la rammemorazione di una infinità di drammi. Vorremmo avere altro tempo, perché uno storico ha la presunzione di poterlo criogenizzare, di avere per sé a disposizione il tempo di tutta l’umanità. Vorremmo dire tutto questo a lei, ma la retorica dell’assenza ci sconfigge e quindi non possiamo farlo.